In questi tempi di isolamento forzato (incipit comune a centinaia di articoli), i giornali e il web sono molto frequentati da temi che affrontano il mondo della produzione culturale e dello spettacolo in particolare, dimostrando chiaramente come chi ci lavora appartenga a una delle categorie colpite, non meno di altre, da gravi conseguenze economiche. È finalmente la smentita all’affermazione “con la cultura non si mangia” che zittisce clamorosamente chiunque lo abbia affermato. Non si tratta solo di quante persone vivano con i mestieri legati allo spettacolo, ma di quanto questo settore sia importante e necessario anche dal punto di vista economico e quanto indotto generi in moltissime altre aree produttive. Da anni ormai il nostro paese ha fatto grandi progressi nel considerare cinema e audiovisivo un’industria a tutti gli effetti. Accezione condivisa anche da quegli autori che per molto tempo difendevano la propria libertà di espressione da qualsiasi legame con il mercato.
Abbiamo anche capito che “da soli non si va da nessuna parte” e abbiamo creato alleanze e strategie comuni fra tutti i protagonisti della filiera: produttori, autori, broadcaster, esportatori, industrie tecniche e istituzioni pubbliche preposte, per obiettivi comuni come ad esempio l’internazionalizzazione (attività imprescindibile per ogni altro settore produttivo, per anni sottovalutata per l’audiovisivo, che in tempi di globalizzazione ha perso molte battaglie e che dopo la scomparsa del MIFED – storico mercato milanese del settore – si è affidata alle poche risorse messe a disposizione per partecipare in modo poco coordinato ad alcuni appuntamenti internazionali). Ma anche negli ultimi anni non sempre siamo riusciti a valorizzare al meglio questa condivisione di intenti e ci siamo arroccati in difesa di interessi di categoria. Spesso abbiamo mancato di una efficace azione di comunicazione isolandoci dalla società intesa come l’insieme di tutti i potenziali fruitori dei nostri prodotti, alimentando di fatto l’immagine di una categoria di privilegiati in gran parte sostenuti da denaro pubblico.
Parlando di Cinecittà, le recenti vicende che hanno portato al suo ritorno sotto il controllo pubblico, sono significative di come una logica puramente industriale non sia però sufficiente a definirne completamente il ruolo.
Cinecittà “risente” (come in generale tutto il cinema italiano) di un passato glorioso divenuto patrimonio di memoria collettiva e dell’immaginario non solo italiano. Quindi a buon diritto è parte del DNA della nostra industria audiovisiva e non semplicemente un luogo dove si lavora per produrre cinema e audiovisivo (oltre alle molte altre cose che si fanno nell’interesse generale del comparto). Ma questa percezione la relega spesso in una specie di santuario che celebra il passato.
Fra le attività che Istituto Luce Cinecittà (lo dice l’atto di indirizzo emanato dal Mibact) deve coordinare c’è anche la già citata internazionalizzazione. Malgrado i frequenti riconoscimenti nei festival internazionali ai nostri autori e attori (nel caso degli Oscar anche ai maestri del costume, della scena, della fotografia, della musica, del trucco…), la percezione è che i nostri film non abbiano una significativa circolazione all’estero e che il nostro sistema di promozione non abbia trovato la strategia e gli strumenti necessari per valorizzarli. Si tende spesso a separare le attività di promozione culturale da quelle che possono facilitare una più forte circolazione del cinema contemporaneo nei “mercati” esteri. Sono invece due forme di promozione che in dialogo fra loro possono aumentarne l’efficacia. Si potrà dire che la differenza la fa il prodotto ma è anche vero che altre cinematografie hanno investito in questa azione energie e risorse finanziarie molto più significative di quanto abbiamo fatto nel nostro paese. Ma credo ci sia una causa più profonda nella non incisività anche nella nostra azione di internazionalizzazione del cinema (diversa la situazione per l’audiovisivo inteso come produzione di serie tv).
La mia esperienza decennale al vertice di Istituto Luce Cinecittà, prima e dopo la riacquisizione del ramo d’azienda degli Studios, mi ha dimostrato inequivocabilmente che la filiera audiovisiva continua a ragionare per settori e solo raramente in termini comuni. Le cause sono molteplici. Per troppi anni l’assenza di una legge che abbia tenuto conto dei mutamenti del mercato, delle esigenze infrastrutturali, e abbia fondato in gran parte sul finanziamento pubblico assieme a quello televisivo la capacità produttiva, ha “diseducato” produttori, autori, politici e istituzioni preposte a “pensare in grande”, a trascurare la ricerca (scrittura e formazione di nuovi autori, nuovi linguaggi e nuove tecnologie etc.), a fare squadra considerando tutte le risorse a disposizione, a considerare tutto il processo che va dalla scrittura all’esportazione come un unicum.
Per almeno due decenni ognuno riteneva di compiere il proprio dovere nel far “quadrare” le storie e i budget minimi indispensabili per produrle, anche quando (spesso) non erano mature nei contenuti o non avevano le risorse necessarie.
Come sempre non sono mancate le eccezioni come dimostrato le molte opere prime che hanno raggiunto risultati di eccellenza. Anche il ruolo dei broadcaster nazionali, ha avuto in questo un peso fondamentale (oltre a quello positivo di aver fortemente rilanciato il mercato interno dei nostri film). Le televisioni generaliste sono indispensabili alla copertura dei budget, attraverso accordi di coproduzione con il produttore e l’acquisto del diritto di antenna più altri diritti spesso ceduti in garanzia delle spese di distribuzione curata da una società controllata dallo stesso broadcaster. Ma questo ha creato delle vere e proprie centrali di “potere editoriale e finanziario” che non hanno uguali nel resto del mondo. Il risultato è una formula fotocopia nello schema di produzione di un film che produce conseguenze negative nella tipologia di prodotto che viene offerto (provincialismo, poco coraggio nel cavalcare generi diversi, budget insufficienti, pochissime coproduzioni). Non mancano ovviamente le eccezioni e la nascita di autori importanti e riconosciuti anche all’estero. Ma si tratta appunto di eccellenze e l’industria ha bisogno anche di poter allargare la propria offerta diversificando i prodotti. In questo contesto anche il ruolo di Cinecittà come sito di produzione è scemato per almeno due ragioni. Il modello proposto fin dagli anni ‘50-‘60 di un luogo dove si “entrava con la sceneggiatura e si usciva con la copia del film” non era più proponibile. I costi per continuare ad essere un luogo di eccellenza per la qualità e quantità dei servizi offerti, contrastava con le risorse economiche a disposizione della produzione italiana di film e serie televisive. Va considerato che fino a pochi anni fa non esisteva il tax credit, uno strumento indispensabile anche per attrarre le produzioni straniere, e nemmeno i fondi regionali e il coordinamento delle Film Commission. Da ciò deriva la percezione per cui ancora oggi l’uso dei teatri di posa è visto come accessorio e fa fatica a rientrare nei piani di produzione. Ancor più pericolosa è l’attitudine a vedere “l’altro” come un competitor nell’accesso alle risorse (FUS, tax credit…) considerate come fonti di finanziamento più che come incentivo all’investimento. Spesso i produttori italiani guardano in cagnesco le produzioni straniere che vengono a girare da noi e hanno accesso al tax credit, o i fondi messi a disposizione di Cinecittà per sostenere le attività di interesse generale (conservazione, digitalizzazione e diffusione dei patrimoni archivistici e cinematografici, promozione del cinema classico e contemporaneo all’estero, servizi essenziali di supporto alla Direzione Generale Cinema, etc…), come se fossero fondi sottratti alla produzione e non piuttosto utilizzati per rafforzare tutto il comparto. L’invasione in rete di queste settimane di cinema classico, materiali archivistici, teatrali, museali e quant’altro, servirà a far scoprire agli italiani quanto siano essi importanti non solo per la nostra identità nazionale, ma come strumenti di didattica, intrattenimento, conoscenza e sviluppo di tutto il settore?
Forse da qui bisogna partire per ricostruire un tessuto comune perché tutti assieme siamo chiamati a creare il patrimonio del futuro possibilmente all’altezza di quello del passato che oggi molti riscoprono stando (forzatamente) a casa.
Venendo alla drammatica situazione che stiamo attraversando e alle molteplici proposte di sostegno finanziario alle categorie dell’industria culturale e del comparto audiovisivo in particolare, dobbiamo prima di tutto dividerci i compiti. Il governo ha già annunciato dei fondi messi a disposizione del comparto. Mi auguro che a questi si possano aggiungere altri fondi che aumentino le risorse. Mi sembra vada nella direzione giusta la proposta di destinare una parte del Fondo europeo di 100 miliardi a integrare gli stipendi di chi è costretto a lavoro ridotto o è messo in cassa integrazione. Tutto indispensabile per superare la crisi. Ma poi? Come facciamo ad essere pronti il giorno dopo la “riapertura” e non perdere neanche un minuto per ricominciare a lavorare anche forti dell’esperienza passata?Qualche suggerimento tralasciando per ora settori importantissimi come la serialità televisiva, l’esercizio, il marketing e lo streaming.
1. Dobbiamo prendere in considerazione non solo film e serie TV ma tutti i prodotti audiovisivi (documentari, cortometraggi…) che devono trovare oltre ai mezzi di produzione anche forme adeguate di distribuzione e una maggiore attenzione da parte di broadcaster e piattaforme (soprattutto in termini di investimenti)
2. Nuove forme di intervento da parte dei broadcaster nazionali e delle loro controllate che devono stabilire parametri di valutazione del valore del diritto FREE e/o di altri diritti TV che vanno ad acquistare. Va escluso in ogni caso che tali broadcaster e loro controllate possano assumere la qualifica di produttore (ai sensi dell’art. 45 della legge 633-41) e che possano usufruire o avere accesso ai benefici riservati ai suddetti produttori.
3. Una miglior definizione dei palinsesti delle reti (anche tematiche) che valorizzino la produzione nazionale e le coproduzioni (di lungometraggi, cortometraggi, e documentari)
4. Garantire l’accesso al tax credit alle produzioni nazionali e internazionali (sul territorio italiano) stabilendo e comunicando tempi certi per la presentazione delle domande e i tempi di approvazione. Inutile ribadire che se si può fare una ragionevole previsione di fabbisogno per la produzione nazionale, più complicato è valutare quello per gli stranieri. Sarebbe importante aprire un Desk per raccogliere in anticipo le richieste per produzioni a medio e lungo termine che vengano dall’estero.
5. Ripristinare un tavolo di coordinamento fra Istituto Luce-Cinecittà, ICE, MAECI e Associazioni dei produttori e Film Commission per individuare le linee generali di azioni di intervento mirate all’internazionalizzazione. Il meccanismo dei decreti a sostegno di produttori, esportatori e distributori esteri di cinema italiano aveva dato buoni risultati. Meglio sarebbe garantire un fondo (in sistema revolving fund) per tutta l’attività di internazionalizzazione mirata alla commercializzazione e attrazione di investimenti. Uno dei problemi più difficili da gestire è la procedura per cui i ministeri competenti (MAECI, MISE, MIBACT) liberano questi fondi. La continuità e automaticità del loro funzionamento sono indispensabili per la pianificazione degli interventi.
6. La stretta collaborazione fra Istituto Luce-Cinecittà e tutto il comparto dell’audiovisivo instaurata nella gestione dei fondi cinema, e ora anche con il Pubblico Registro Cinematografico, deve estendersi al rapporto con i teatri di posa e i laboratori di postproduzione. I produttori devono poter valutare sempre (se utile al piano di lavorazione) l’opzione di girare in teatro di posa e non dare per scontato che i costi siano più alti rispetto al girare in location. Così come è auspicabile una più stretta collaborazione e scambio di informazioni fra Cinecittà e le Film Commission (nei due sensi). Rimane sempre attuale l’attuazione di un organico rapporto di collaborazione fra Istituto Luce-Cinecittà e RAI (due società pubbliche).
7. L’audiovisivo è fatto anche di patrimoni archivistici e cinema classico. La diffusione anche all’estero di questi patrimoni (come ampiamente dimostrato) e le relazioni con istituzioni in tutto il mondo crea un circuito virtuoso che fa bene anche ai prodotti contemporanei. Sviluppare questi rapporti e le attività ad esse connesse arricchisce gli scambi e abbraccia territori nuovi e importanti quali le università, i musei, i festival. Molti dei nostri Istituti di Cultura e Ambasciate sono già partner consolidati. Bisogna dotarli di strumenti efficaci e di buona qualità per la diffusione di questi materiali (o integrare le loro dotazioni con fondi specifici per l’affitto di locali e sale di proiezione).
Tutto quanto sopra dovrebbe diventare tema di riflessione comune e tramutarsi in precise linee di azione. Non bisogna arrendersi di fronte all’obiezione che le risorse non bastano. Abbiamo le prove che molto di quanto è stato fatto funziona e con un piccolo sforzo in più può dare risultati migliori. Siamo al punto di partenza “da soli non si va da nessuna parte”. Che significa: divisi e difensori del proprio orticello si resta deboli e isolati.
(Roberto Cicutto, Presidente e Amministratore delegato Istituto Luce-Cinecittà)